L’amore vissuto nelle famiglie è una forza permanente per la vita della
Chiesa. «Il fine unitivo del matrimonio è un costante richiamo al crescere e
all’approfondirsi di questo amore. Nella loro unione di amore gli sposi
sperimentano la bellezza della paternità e della maternità; condividono i
progetti e le fatiche, i desideri e le preoccupazioni; imparano la cura reciproca
e il perdono vicendevole. In questo amore celebrano i loro momenti felici e si
sostengono nei passaggi difficili della loro storia di vita […] La bellezza del
dono reciproco e gratuito, la gioia per la vita che nasce e la cura amorevole di
tutti i membri, dai piccoli agli anziani, sono alcuni dei frutti che rendono unica
e insostituibile la risposta alla vocazione della famiglia», tanto per la Chiesa
quanto per l’intera società. (AL 88)
Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o
tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il
problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che
le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo
unicamente che si faccia la nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci
porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo
sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone
che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la
famiglia si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci
esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze
con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando
riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme
a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani,
se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto
come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda
compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo,
anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato. (AL 92)
Amare significa anche rendersi amabili, e qui trova senso
l’espressione aschemonei. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere». Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano». Ogni giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo
e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore». (AL 99)
Amoris Laetitia
«L’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». (AL 94)
Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che
danno forza, che consolano, che stimolano. (AL 100)
Abbiamo detto molte volte che per amare gli altri occorre prima amare sé
stessi. …chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri. (AL101)
L’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, «senza
sperarne nulla» fino ad arrivare all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri. (AL102)
Non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace. (AL 104)
L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto
corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri. (AL 134)
È più sano accettare con realismo i limiti, le sfide e le imperfezioni, e dare
ascolto all’appello a crescere uniti, a far maturare l’amore e a coltivare la
solidità dell’unione, accada quel che accada. (AL 135)
Il dialogo è una modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e
maturare l’amore nella vita coniugale e familiare. Ma richiede un lungo e
impegnativo tirocinio. (AL 136)
Darsi tempo, tempo di qualità, che consiste nell’ascoltare con pazienza e
attenzione, finché l’altro abbia espresso tutto quello che aveva bisogno di esprimere. Questo richiede l’ascesi di non incominciare a parlare prima del momento adatto. Invece di iniziare ad offrire opinioni o consigli, bisogna assicurarsi di aver ascoltato tutto quello che l’altro ha la necessità di dire. (AL 137)
Molte volte uno dei coniugi non ha bisogno di una soluzione ai suoi problemi ma di essere ascoltato. Deve percepire che è stata colta la sua pena, la sua delusione, la sua paura, la sua ira,
la sua speranza, il suo sogno. (AL 137)
Sviluppare l’abitudine di dare importanza reale all’altro. Si tratta di dare valore alla sua persona, di riconoscere che ha il diritto di esistere, a pensare in maniera autonoma e ad essere felice. Non bisogna mai sottovalutare quello che può dire o reclamare, benché sia necessario esprimere il proprio punto di
vista. (AL 138)
L’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una “unità nella
diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile arricchente di
comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispettano e si apprezzano,
mantenendo tuttavia differenti sfumature e accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali. (AL 139)
Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere
qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella
lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società. (AL 141)
L’amore matrimoniale porta a fare in modo che tutta la vita emotiva diventi un bene per la famiglia e sia al servizio della vita in comune. (AL 146)
Così, in mezzo ad un conflitto non risolto, e benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi. (AL 163)
Lettera agli sposi
La relazione con Dio ci plasma, ci accompagna e ci mette in movimento
come persone e, in ultima istanza, ci aiuta a “uscire dalla nostra terra”, in
molti casi con un certo timore e persino con la paura dell’ignoto, ma grazie
alla nostra fede cristiana sappiamo che non siamo soli perché Dio è in noi.
(Lett. Sposi 2021)
Cari sposi, sappiate che i vostri figli – e specialmente i più giovani – vi
osservano con attenzione e cercano in voi la testimonianza di un amore forte
e affidabile. (Lett. Sposi 2021)
«Quanto è importante, per i giovani, vedere con i propri occhi l’amore di
Cristo vivo e presente nell’amore degli sposi, che testimoniano con la loro vita
concreta che l’amore per sempre è possibile!». (Lett. Sposi 2021)
La vocazione al matrimonio è una chiamata a condurre una barca instabile – ma sicura per la realtà del sacramento – in un mare talvolta agitato. .. Non dimentichiamo che, mediante il Sacramento del matrimonio, Gesù è presente
su questa barca. (Lett. Sposi 2021)
Non lasciatevi vincere dalla stanchezza; la forza dell’amore vi renda capaci di guardare più agli altri – al coniuge, ai figli – che alla propria fatica. (Lett. Sposi 2021)
Patris corde
La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza»
(Rm 4,18) attraverso le nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e nonostante la nostra debolezza. (Patris corde)
Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. (Patris corde)
E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande. (Patris corde)
In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani. (Patris corde)
Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e
forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella
nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo.
(Patris corde)
Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare
spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente
dell’esistenza. (Patris corde)
Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni
consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità. (Patris corde)
La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre
famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San
Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono
lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e
della miseria. (Patris corde)
Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al
mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. (Patris corde)
Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà.
Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di
scelte, di libertà, di partenze. (Patris corde)
La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. (Patris corde)
Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità,
dobbiamo sempre ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno”
che rinvia a una paternità più alta. (Patris corde)
Evangelii Gaudium
“Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente
offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore
comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza
isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più
spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene”. (Evangelii Gaudium)
“«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande
idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice
amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità” (EG 7-8).
“Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone
consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di
autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera
appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro” (EG 78).
“La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un
ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i
tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se
non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo
mi trovo in questo mondo” (EG 274).
“Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto
dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue
richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo.
L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé,
dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la
carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla
rivoluzione della tenerezza”(EG 88).
Pertanto non c’è una relazione con Dio
che non ci ponga al contempo al servizio e al rapporto con gli altri (EG 91).
Gli altri sono “compagni di strada”; dobbiamo rinnovare il nostro quotidiano “scegliere la fraternità” (EG 91).
“Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le
strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di
aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di
essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e
procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita”. (Evangelii Gaudium)